Roma è Roma

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Quando avevo 16 anni hanno scoperto che nel mio cuore c’era qualcosa che non andava.

Stavamo facendo le visite mediche, come succedeva ogni luglio nel settore giovanile della Roma. Entri sempre pensando che ci vorrà più o meno un’ora e poi puoi tornare in campo. Eravamo ragazzini, pieni di energia e salute. 

Questa volta però, ho capito subito che c’era qualcosa di strano. Nelle ultime settimane mi stancavo molto facilmente. Mi bastava salire una rampa di scale per aver subito il fiatone. Era come se il mio corpo fosse invecchiato in una settimana.

Alla fine sono rimasto con i medici per tre ore. Mi dissero che avevo troppi battiti irregolari. 

Tutti ce li abbiamo occasionalmente, ma non così spesso. I miei battiti erano irregolari 20 volte più del normale. Mi dissero che avevo una sorta di aritmia. 

Chiesi ai medici che potevo fare. Mi risposero che avrei dovuto smettere di giocare dai sei agli otto mesi e che dopo avremmo valutato. 

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Quindi niente corsa, niente allenamenti, niente calcio.

Niente Roma.

Sono sempre stato una persona ottimista, ma quel periodo è stato davvero difficile. Non potevo fare niente, tranne una cosa: ascoltare il mio cuore. Ogni sera cercavo di capire la frequenza dei miei battiti irregolari. Mi sedevo sul letto aspettando il silenzio assoluto, poi chiudevo gli occhi e contavo i battiti.

Tum… tum… tum...

Sono diventato dottore di me stesso. Mi facevo un checkup ogni giorno. 

Ho passato quattro mesi aspettando, pregando e sperando che i battiti irregolari sparissero in qualche modo. Un giorno mi sono accorto che erano spariti. Così, all’improvviso. Non me lo aspettavo visto che i medici avevano detto che sarei dovuto stare a riposo almeno per altri due mesi. Ero impazzito? 

Beh, credo di no, perché sapevo che adesso i miei battiti erano regolari. Lo potevo dire. Lo sapevo.

Il secondo giorno ascoltai ancora. Niente aritmia.

Il terzo giorno, ancora niente.

Adesso sarei potuto andare anche sulle stelle senza sentirmi come se avessi appena scalato l’Everest. Quindi al quarto giorno ho chiamato i miei. Volevo fare un altro controllo.

Siamo andati dai dottori e hanno detto: “Stai bene”.

La stessa diagnosi del Dr. Pellegrini.

E le due parole più dolci che avessi mai sentito.

Presto tornai in campo per il primo allenamento. Ero motivatissimo. Avrei potuto correre per sempre. Volevo solo fare scivolate e scattare in area. Credo che avrei potuto invadere una nazione da solo. Il dolore era sparito. Ero tornato! 

Quindi che succede alla prima partita? Mi rompo il quinto metatarso.

Fuori sei settimane!

Incredibile…

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Fran Santiago/Getty Images

Ad essere onesti però, fu una situazione molto più facile da affrontare in confronto all’aritmia. E comunque, in quei quattro mesi mi sono successe cose bellissime. Sono cresciuto molto. Ho incontrato Veronica, che oggi è mia moglie e la madre dei miei due bambini.

E alla fine, tutto questo mi ha convinto ancora di più che il calcio era tutto quello che volevo. Avevo sempre bisogno di avere qualcosa tra i piedi. Quando ero bambino, mi davano le macchinine, le buttavo per terra e le prendevo a calci. Non mi stancavo mai. Quando ero nelle giovanili, giocavo tre partite ogni weekend. Ma adesso, dopo tutto quello che stavo passando, spendevo ogni minuto delle mie giornate cercando di diventare un calciatore. Non avrei mai voluto pensare, Mannaggia, mi sarei potuto sacrificare di più. Cavolo, avrei potuto dare di più.

Ora più che mai, sapevo cosa potesse essere una vita senza calcio.

Inoltre, giocavo per la Roma. Capite cosa significa? Capite quanto sia importante per un bambino cresciuto a Cinecittà? Non si trattava di lavoro, hobby o carriera. Per me giocare per la Roma era...tutto. Quando avevo cinque anni, andavo allo Stadio Olimpico con mio padre e discutevo con gli altri tifosi per farmi strada ogni volta che dovevo andare in bagno. Ho visto giocare Totti. Ho visto parte della stagione dello Scudetto con Capello.

Quando ho messo gli scarpini per la prima volta, sognavo di correre di fronte ai tifosi dell’Olimpico.

Poi un giorno, quando avevo otto anni, mio padre mi disse che la Roma aveva mandato degli osservatori a vedermi. Pensavo che scherzasse, ma dopo mi chiamarono per un provino. Per cinque mesi mi sono allenato con i Pulcini nonostante fossi un anno più piccolo di tutti. Visto che a Trigoria stavano rifacendo i campi, ci allenavamo alla Longarina. Per arrivare ci voleva un’ora, quindi mangiavo e mi cambiavo in macchina. Poi aprivo lo sportello e correvo in campo. Era l’ingresso più bello di sempre dopo quello dell’Olimpico.

Davo tutto me stesso ogni giorno.

E ogni giorno controllavo la posta sperando che arrivasse la lettera.

La Roma manda sempre delle lettere ai ragazzi per comunicare se sono stati presi o meno. Un giorno, a luglio, finalmente arrivò la mia. Mio padre mi disse di aprirla.

Conosceva il contenuto? Certo che sì... 

Ma io no, e quando ho visto la lettera… è difficile da spiegare. Quello è il giorno in cui la mia vita è diventata un film di cui io ero il protagonista e tutti quei sogni folli sono diventati realtà.

Non avevo idea di cosa sarebbe successo da lì in avanti.

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Appena indossi la maglia della Roma, rappresenti qualcosa che è più grande di te. Specialmente quando arrivi in prima squadra. Per me la strada per arrivarci è stata lenta e costante, perché le giovanili si allenano vicino ai grandi e quando un giocatore si infortuna, chiamano sempre qualche ragazzino. Qualche volta è toccato a me. Quindi lasciavo il campo della Primavera e facevo questo grande giro. Era “Il Percorso”.

Poi a marzo 2015, giocammo i quarti di finale della Youth League contro il Manchester City a Latina. Me lo ricordo bene per due motivi: 1) Ho segnato un gran gol dalla distanza e abbiamo vinto. 2) Più tardi ho saputo che Rudi Garcia era lì e disse che presto sarei stato pronto per la prima squadra.

Pochi giorni dopo sono stato convocato in prima squadra per la partita in trasferta contro il Cesena. Il giorno della gara, ci stavamo preparando in hotel — e Rudi, aveva l’abitudine di fermarsi nelle nostre camere prima che uscissimo per dare le ultime istruzioni.

Ai difensori diceva come marcare gli attaccanti e cose così. Ai centrocampisti come gestire i momenti della partita. Agli attaccanti dove dovevano correre.

E ai giovani diceva: “Tieniti pronto. Non si sa mai…”

Era molto intelligente. Anche se sapevamo che difficilmente saremmo entrati, ci voleva tenere svegli. Ma prima della partita con il Cesena, mi ha detto qualcosa di diverso. A mister Garcia mi lega un sentimento di stima e riconoscenza: lo sento spesso e sono felice di aver conservato negli anni un bel rapporto con lui.

“Tieniti pronto. Perché oggi…”

Disse solo questo.

Non si trattava di lavoro, hobby o carriera. Per me giocare per la Roma era...tutto.

Lorenzo Pellegrini

Ero teso. Teso ed eccitato. Sentivo il peso sulle spalle. Era la Roma. La vera Roma. Adesso potevo aiutare la squadra — ed è quello che è successo. All’inizio del secondo tempo Rudi mi ha detto di scaldarmi. Stavamo vincendo 1-0 con gol di De Rossi — che, tra l’altro, per me è sempre stato più di un compagno di squadra: un riferimento quando ero giovane e una persona a cui sono rimasto legato. Comunque, non è che fosse proprio un’amichevole per noi, perché in campionato non vincevamo da cinque partite. Avevamo bisogno dei tre punti, ma, non so perché, non ero nervoso. Quando sono stato chiamato per entrare, è come se la mia mente, in qualche modo, avesse messo il pilota automatico. Cambiati, mettiti i parastinchi, entra. 

Una volta entrato in campo da giocatore della Roma, beh… l’unico modo che ho per descriverlo è che in quei 23 minuti ho rivissuto 10 anni.

Improvvisamente ero sugli spalti dell’Olimpico con mio padre. Stavo giocando la terza partita del weekend. Ero seduto sul mio letto a controllare i battiti cardiaci. Ascoltavo i miei genitori che mi accompagnavano lungo via di Trigoria e scherzando dicevano: “Quante volte l’abbiamo fatta questa strada?”

Beh, tante.

Mi allacciavo gli scarpini sognando di diventare un giocatore della Roma.

E adesso correvo con la prima squadra. Ero lì.

Che cosa meravigliosa.

Dopodiché lasciai la Roma per un po’ per crescere come giocatore. Nel 2015, quando avevo 19 anni, sono andato in prestito al Sassuolo per due anni. Era la prima volta che andavo via di casa e quando sono tornato, non ero solamente molto più maturo, ma era come se sentissi la responsabilità di essere all’altezza della Roma. La società, la città, la storia… ti chiedono tanto. La tua vita ruota intorno a questo. Hai bisogno di una certa condotta e devi avere gli atteggiamenti giusti. Se non ce li hai — ciao. 

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Paolo Bruno/Getty Images /

Uno dei momenti di cui vado più fiero è stato durante la stagione di Champions 2017/18. Avevamo capito di poter fare qualcosa di grande fin dall’inizio, perché abbiamo vinto un girone in cui c’erano Atletico Madrid, Qarabag e Chelsea. Avevamo quella sensazione. Anche quando nei quarti di finale abbiamo perso 4-1 con il Barcellona, continuavamo a crederci.

Siamo onesti, non meritavamo di prendere quattro gol. Gli abbiamo regalato due autogol e anche gli altri due sono stati abbastanza fortunati. Ma quando Edin ha segnato quello che sembrava il gol della bandiera, abbiamo capito di essere ancora vivi. 

4-0? Ci avrebbe ammazzato. 

4-1? Continuiamo a combattere. 

Non so cosa ci sia passato per la testa la settimana dopo, ma quando stavamo per giocare la gara di ritorno a Roma, sapevamo che saremmo passati. Lo sapevamo. Non sto esagerando. Sapevamo anche il risultato. Dicevamo tutti che avremmo vinto 3-0 e che saremmo passati per il gol in trasferta. Continuo a credere che eravamo pazzi a pensare una cosa così. Il Barça! Avevano ancora Messi. Erano fortissimi.

Ma ti giuro che quella mattina, con chiunque parlassi a tavola mentre eravamo a colazione ti avrebbe detto il risultato. Roma 3 - 0 Barça.

È impossibile da spiegare. Impossibile. Sembrava la giornata perfetta. C’era qualcosa nell’aria, una specie di magia romana. Ed era vero. Lo percepivamo tutti.

Tutti.

Beh… tutti tranne uno. Uno soltanto. Manolas! 

Incredibile … faceva sempre così! Avevamo questo senso di convinzione e lui andava in giro a dire a tutti che eravamo spacciati. L’unica cosa di cui non era sicuro è che avremmo perso.

Forse era qualche rito scaramantico. Non lo so. Comunque ha funzionato, perché sappiamo tutti com’è andata a finire.

Edin ha segnato dopo sei minuti e quando Daniele ha segnato il 2-0, l’Olimpico è impazzito. A quel punto sapevamo con certezza che saremmo passati. L’unica cosa che mi chiedevo è chi avrebbe segnato il terzo. Quindi chi spunta su calcio d’angolo a otto minuti dalla fine? Chi diventa l’eroe?

Manolas!!

Questo è più o meno tutto quello che mi ricordo della partita. Il resto è abbastanza offuscato. E qualsiasi cosa sia successa dopo anche di più.

Credo che questo abbia dimostrato che quando noi Romanisti siamo uniti, tutto è possibile.

Sembrava la giornata perfetta. C’era qualcosa nell’aria, una specie di magia romana. Ed era vero. Lo percepivamo tutti.

Lorenzo Pellegrini

L’unico momento che si avvicina a quello, l’ho vissuto la scorsa stagione. Eravamo a San Siro contro l’Inter e ho giocato la mia prima partita da capitano della Roma. Posso dire tranquillamente di non esser mai stato più orgoglioso. Stavo seguendo le orme di Francesco e Daniele, due leggende sia per la società che per la città. Ancora oggi, ogni volta che metto la fascia, salgo i gradini dell’Olimpico e sento il rumore dei nostri tifosi, mi chiedo se è vero.

Non so perché, ma ho come paura di svegliarmi all’improvviso.

In questo momento stiamo lavorando parecchio a creare una mentalità vincente, perché mister Mourinho ci dice sempre che deve essere una delle nostre maggiori qualità. Ovviamente, questo cambiamento non può accadere in un minuto, ma sono sicuro che siamo sulla strada giusta: serenità e senso di responsabilità sono due ingredienti chiave per la nostra crescita.

E so di giocare una parte importante in questo processo. Penso tanto a come giocava Francesco. Era il classico capitano che non aveva bisogno di parlare più di tanto, perché era il modo in cui giocava a parlare per lui. Non potrò mai paragonarmi a lui, ma mi piacerebbe provare a ripetere qualcosa di simile, cercando anche di spiegare a tutti cosa significhi la Roma.

Ogni giorno dico ai miei compagni cosa significa giocare per la Roma. Questa non è una fabbrica di talenti, questo non è un trampolino per andare in una squadra più grande. Perché non esiste una squadra più grande.

No. Questo è un punto d’arrivo.

Roma è... Roma.