Lettera alla Vila Cruzeiro
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Tu lo sai cos'è essere una promessa?
Io sì.
Compreso una promessa mancata.
Il più grande spreco del calcio: io.
Mi piace questa parola, spreco.
Non solo perché suona bene, ma perché mi piace un sacco sprecare la vita. Sto bene così, in un frenetico spreco. Mi piace questo stigma.
Non faccio uso di droghe, anche se provano a dimostrarlo.
Non sono un criminale, però certo, avrei potuto esserlo.
Non mi piace fare serata.
Vado sempre allo stesso posto, il chiosco di Naná. Se vuoi trovarmi, passa di là.
Sì, bevo tutti i giorni, spesso anche nei giorni in cui non bevo.
Perché una persona come me arriva a bere quasi tutti i giorni?
Non mi piace dare spiegazioni agli altri. Ma eccone una.
Perché non è facile essere una promessa rimasta incompiuta. Soprattutto alla mia età.
Mi chiamano l'Imperatore.
Immagina un po'.
Uno che è venuto dalla favela per essere chiamato Imperatore in Europa. Chi me lo può spiegare, caro mio? Io ancora non l'ho capito. Forse non ho fatto poi così tante cose sbagliate, giusto?
Tanta gente non ha capito perché ho abbandonato la gloria dei campi per restare qui seduto a bere, come se fossi apparentemente alla deriva.
Perché a un certo punto ho voluto così, ed è una decisione difficile da tornare indietro.
Ma non voglio parlarne ora. Voglio che mi accompagni in un giro dei veri fratelli.
Vivo a Barra da Tijuca da tanti anni. Ma il mio ombelico è radicato nella favela.
Vila Cruzeiro. Complexo da Penha.
Sali dietro, andiamo in moto. Così mi sento a mio agio.
Devo avvertire che stiamo sbucando in zona. Oggi capirai cosa fa davvero Adriano quando è con i suoi amici in un posto molto speciale. Niente folclore o false notizie di giornale. Solo la verità. La roba vera.
Dai, fratello, andiamo. Sta per fare giorno. Tra poco il traffico sarà tutto bloccato. Non lo sapevi? Da qui fino alla Penha, attraverso la Linha Amarela, ci si arriva in fretta. Ma solo a quest'ora.
Via?
È proprio così. Proprio all’ingresso della comunità. Il campo dell’Ordem e Progresso. Cavolo, ho giocato più a calcio qui che al San Siro. Te lo giuro, fra.
Guarda bene che per entrare e uscire dalla Vila Cruzeiro devi per forza passare davanti al campo. Il calcio si impone nella nostra vita.
Qui mio padre era davvero felice. Almir Leite Ribeiro. Lo chiamavano Mirinho, così lo conoscevano tutti. Uno di grande rispetto, capito? Sto scherzando? Chiedilo a chiunque.
Il sabato si svegliava presto, preparava il suo zainetto e voleva subito andare al campo. “Su, figliolo. Ti aspetto. Andiamo che oggi sarà tosta la partita”, diceva. La nostra squadra di calcio amatoriale si chiama Hang. Perché questo nome? Cazzo ne so. Quando l’ho conosciuta era già così. Ho giocato per molto tempo con la maglia gialloblù. Eccome. Proprio come quella del Parma. Anche dopo essere andato in Europa non ho mai abbandonato il campetto.
Certo. Tornavo in vacanza dall’Italia e non facevo altro. Prendevo il taxi dall’aeroporto e gli dicevo di andare subito al Cruzeiro. Porca troia. Non passavo nemmeno da mia madre prima.
Arrivavo all’ingresso della favela, lasciavo le valigie e andavo su urlando. Bussavo a casa di Cachaça, il mio grande amico che non c’è più, e di Hermes, un altro amico d’infanzia. Pichiavo alla finestra, “svegliati, monello! Dai, dai!”. Jorginho, un altro amico d’infanzia, si univa a noi e poi, lasciamo perdere. Facevamo il diavolo a quattro. Ci trovavano solo giorni dopo. Andavamo in giro per tutto il complesso giocando a calcio, a fare due chiacchiere, da una bettola all’altra. Neanche un cavalo ce la farebbe!
Una delle partite più importanti del Hang era contro il Chapa Quente. Abbiamo pure giocato una finale di campionato amatoriale contro di loro. Ero già al Parma. Mio padre me lo diceva ogni giorno: "Ti ho già iscritto al campionato, figliolo. I tipi si stanno cagando addosso. È già da un mese che li avverto: ‘tra poco arriva il mio ragazzo’. E loro rispondono, ‘eh no, non va bene, Mirinho’. Non me ne frega. Tu giocherai."
E così ho fato.
Con un bicchierino di Coca-Cola in mano, mio padre ha svelato gli undici titolari del Hang.
"Hangrismar in porta. Boldo con Limone, Richard e Cachaça in difesa."
Cavolo, Boldo con Limone era un tipo amaro. Si lamentava di tutto. Richard aveva un tiro potente, magari più del mio. I tipi si cagavano addosso quando erano in barriera e lui batteva il calcio di punizione.
"Hermes a centrocampo con Alan.
Crézio sulla fascia destra e Jorginho a sinistra, il nostro numero sette.
In attacco Frank, Dingo, il 10, e Adriano."
Con questa squadra potevamo pure giocare in Champions League.
Clima bollente a Rio, tipico di fine anno. Musica alta. Samba. E quante belle ragazze che giravano su e giù, te lo giuro. Che Dio le benedica. Non c’è niente di meglio al mondo, fra.
Abbiamo vinto il campionato. C’erano botti in tutta la favela. Uno spettacolo da paura
È su questo campo che ho imparato a bere. Mio padre impazziva, fra. Non sopportava vedere nessuno con un bicchiere in mano, figuriamoci i ragazzini.
Mi ricordo la prima volta che mi ha beccato con un bicchiere in mano. Avevo 14 anni e la favela era in festa. Era la prima serata con i nuovi riflettori accesi al campo dell’Ordem e Progresso; quindi, in quell’occasione avevano organizzato una partita di calcio con grigliata.
C'era un sacco di gente, un'allegria che travolgeva tutti, tipica del calcio di quartiere, lo sai? Musica pagode a tutto volume, gente dappertutto. Io ancora non bevevo. Ma quando ho visto tutti i ragazzi con qualcosa in mano, ridendo e scherzando, ho pensato ‘aaaahhhh’. Non ho resistito, ho preso un bicchiere di plastica e l’ho riempito di birra. Quella schiuma amara e leggera che scendeva giù per la gola per la prima volta aveva un sapore speciale. Davanti a me si apriva un nuovo mondo di “divertimento”. Mia madre era alla festa e ha visto tutto. Però non ha detto nulla. Mio padre invece… Porca troia. Quando mi ha visto col bicchiere in mano, ha attraversato tutto il campo con quel passo veloce di chi non può perdere l’autobus. “Smetilla!” ha sparato. Secco e diretto, come al solito. Io ho risposto, “dai, ti prego”. Le mie zie e mia madre hanno capito subito cosa succedeva e hanno cercato di calmare le acque prima che la situazione peggiorasse. “Dai, Mirinho, è con i suoi amici, non farà nulla di male, stanno solo ridendo e scherzando, lasciali stare, anche Adriano ormai sta diventando grande”, ha detto mia madre.
Niente da fare.
Il vecchietto è andato fuori di testa. Mi ha strappato il bicchiere di mano e l’ha buttato per terra. “Non ti ho cresciuto così, figliolo”, ha detto.
Mirinho era un leader della Vila Cruzeiro. Tutti lo rispettavano. E lui dava l’esempio. Il calcio era la sua passione. Una delle sue missioni era tenere i ragazzi lontani dai guai. Cercava sempre di portarli verso il calcio. Non voleva nessuno in giro a fare un cazzo. E nemmeno che saltassero la scuola. Suo padre beveva molto. Lui sì che era un alcolizzato. È morto per questo, tra l’altro. Così ogni volta che vedeva i ragazzi bere, mio padre non aveva dubbi. Buttava bicchieri e bottiglie per terra senza pensarci due volte. Ma non bastava, no? Così il vecchietto ha cambiato tattica. Quando eravamo distratti, toglieva la propria dentiera e la metteva dentro il mio bicchiere, o in quello dei ragazzi che erano con me. Che personaggio. Mi manca tantissimo…
Tutto quello che ho imparato da mio padre l’ho capito dai suoi gesti. Non ci facevamo grandi discorsi. Il vecchietto non era tipo da fare filosofia né da stare a fare ramanzine. La sua rettitudine quotidiana e il rispetto che gli altri avevano per lui era quello che mi colpiva di più.
La morte di mio padre ha cambiato la mia vita per sempre. Ancora oggi è una cosa che non sono riuscito a superare. E pensa un po’ come sono le cose, tutto è iniziato qui, nella comunità che per me significa così tanto.
La Vila Cruzeiro non è il posto migliore al mondo. Anzi, tutt’altro.
È pericolosa da morire. La vita è dura. La gente soffre. Tanti amici devono scegliere altre strade. Basta guardarsi intorno e te ne accorgi. Se mi mettessi a raccontare tutti quelli che non ci sono più, staremmo qui a parlare per giorni e giorni… Che Dio li benedica. Puoi chiederlo a chiunque qui. Chi può, alla fine se ne va a vivere da un’altra parte.
Cavolo, mio padre ha preso una pallottola in testa a una festa alla Cruzeiro. Una pallottola vagante. Lui non c’entrava niente con la rissa. Il proiettile gli è entrato in fronte ed è rimasto fermo nella nuca. I medici non potevano rimuoverlo. Da quel momento, la vita della mia famiglia non è stata più la stessa. Mio padre ha cominciato ad avere convulsioni sempre più frequenti.
Hai mai visto qualcuno avere una crisi epilettica proprio davanti a te? Senti, non vorresti mai vederlo, fra.
È una cosa spaventosa.
Avevo dieci anni quando mio padre è stato colpito. Sono cresciuto convivendo con le sue crisi. E per questo Mirinho non ha più potuto lavorare. Tutta la responsabilità di mantenere la famiglia è caduta sulle spalle di mia madre. E lei cosa ha fatto? Si è arrangiata. Ha contato sull’aiuto dei vicini. La famiglia ha fatto la sua parte. Qui ognuno vive con il minimo indispensabile. Eppure, mia madre non è mai rimasta sola. C'era sempre qualcuno che le dava una mano.
Una volta un vicino le ha portato una grossa cassa di uova e ha detto: "Rosilda, ecco qui, vendile per mettere insieme qualche spicciolo. Così puoi comprare uno spuntino per Adriano". Però lei non aveva soldi per pagarlo. "Non ti preoccupare, sorella. Vendi le uova e poi mi paghi." Era così, amico. Te lo giuro.
Un altro vicino le ha procurato una bombola di gas. “Rosilda, vendi questa. Metà è tua, metà è mia.” E via mia madre, cercando di racimolare qualche soldo lavorando duro tutti i giorni. Mio padre restava a casa. E lei lavorava per due, mentre mia nonna mi portava agli allenamenti.
Una delle mie zie è riuscita a trovare un lavoro fisso, dove guadagnava anche dei buoni pasto. Lei dava quei foglietti a mia madre. “Rosilda, è poco, ma almeno puoi comprare dei biscotti per Adriano.”
Senza queste persone nella mia vita io non sarei nessuno.
Nessuno.
Cavolo, tutto questo chiacchiericcio mi ha fatto venire una sete incredibile. Dai, andiamo alla bettola del mio amico Hermes. È proprio lì, dietro il campetto. Sì, lì nel vicolo.
Mia nonna viveva qui. Nonna Vanda, che personaggio. Te l'ho già detto, vero? “Adi-rano, vieni a mangiare i popcorn, figlio mio!” Ancora oggi lei non riesce a pronunciare bene il mio nome.
Da bambino stavo tutti i giorni a casa sua. Io, mia madre e mio padre abitavamo in Via 9, proprio nella parte più alta della favela. Vuoi salire a dare un’occhiata? È un po’ complicato. C'è sempre un sacco di movimento. Meglio rimanere qui giù. La favela ha certe regole che bisogna rispettare.
Quando ero bambino, mia madre scendeva giù a lavorare e mi lasciava con la nonna. Lei mi portava a scuola e poi al Flamengo. Il mio sbattimento è iniziato presto, non c’è dubbio.
Hermes, compare mio! Dai, metti giù il domino. Occhio, che questo qui è un ladro, eh. Non fare squadra con lui. Hermes è un furbone. Siediti qui, Jorginho. Dai, iniziamo con il doppio sei.
Ci lavavamo in un pozzo che sta lì in fondo al vicolo. La piscina della favela è questa, caro mio. Non lo sapevi? Cavolo, se fa caldo nella zona sud della città, dove vivono quelli che hanno più soldi qui a Rio, figurati com’è nella zona nord, nel bel mezzo della comunità. I ragazzini si tirano su il secchio pieno d’acqua e si rinfrescano come possono. Vuoi che ti dica una cosa? Ancora oggi preferisco questo, lo sai? Entro in piscina o al mare solo per fare scena. Ma la vera felicità la provo ancora quando faccio una doccia sul tetto piatto di una casa in favela o quando mi verso un secchio d’acqua in testa.
Hai visto quanta gente c’è in giro? E il rumore? Cavolo, la favela è davvero un altro mondo. Appena apri la porta di casa e ti trovi davanti la vicina. Metti piede fuori e c’è il tipo della bottega in strada, la signora delle pasteis brasiliane con la busta in mano, il cugino del barbiere che ti chiama a giocare a pallone. Qui ci conosciamo tutti. Certo, una casa attaccata all’altra, giusto?
Questa è una delle cose che mi ha colpito di più quando mi sono trasferito in Europa. Le strade sono silenziose. La gente non si saluta. Ognuno per conto suo. Il primo Natale che ho passato a Milano è stato pesante, fra.
Il periodo delle feste è molto importante a casa mia. Stiamo tutti insieme. È sempre stato così. Via 9 si riempiva perché Mirinho era un grande, no? La tradizione iniziava lì. Anche a Capodanno, tutta la favela si riuniva davanti casa mia.
Quando sono andato all'Inter il colpo è stato fortissimo durante il primo inverno. È arrivato Natale e io ero da solo nel mio appartamento. Faceva un freddo cane a Milano. Sentivo quella depressione che arriva nei mesi gelidi e grigi del nord Italia. Le persone tutte vestite di scuro. Le strade deserte. I giorni sono cortissimi. Il tempo umido. Non ti viene voglia di fare niente, caro mio. A tutto questo si aggiungeva la nostalgia di casa e sono stato davvero male.
Seedorf è stato davvero un grande amico. Lui e sua moglie hanno organizzato una cena per gli amici più intimi e mi hanno invitato. Sai, quel tipo ha uno stile che spacca. Immagina la cena di Natale a casa sua. Una raffinatezza da paura. Era tutto bellissimo e buono, ma la verità è che volevo essere a Rio de Janeiro.
Non sono rimasto molto tempo. Mi sono scusato, li ho salutati velocemente e sono tornato al mio appartamento. Poi ho chiamato a casa. “Ciao mamma. Buon Natale,” ho detto. “Figlio mio! Mi manchi tantissimo. Buon Natale anche a te. Ci sono tutti qui, manchi solo tu,” ha risposto lei.
Si sentivano le risate in sottofondo. La musica da ballo che le mie zie mettono per ricordare i tempi in cui erano ragazze era a tutto volume. Cosa? Quelle lì ballano come se fossero ancora in discoteca. Anche mia madre, sempre uguale. Bastava sentire tutto quello rumore al telefono e mi sembrava di vederli lì davanti a me. Cavolo, mi sono messo a piangere subito.
“Tutto bene, figlio mio?” mi ha chiesto mia madre. “Sì, sì. Sono appena tornato dalla casa di un amico,” le ho detto. “Ah, allora hai già cenato? Qui la mamma sta ancora sistemando la tavola,” ha risposto, “ci saranno anche delle pasteis oggi.” Cavolo, quello era un colpo basso. Le pasteis della nonna sono le migliori al mondo. Mi sono messo a piangere sul serio. Di brutto.
Ho pure cominciato a singhiozzare. “Va bene, mamma. Goditela, allora. Buona cena a tutti. Non ti preoccupare, qui è tutto a posto.”
Ero a pezzi. Ho preso una bottiglia di vodka. Senza esagerare. Me la sono scolata tutta da solo. Mi sono riempito di vodka. Ho pianto tutta la notte. Mi sono addormentato sul divano, di tanto che avevo bevuto e pianto. Ma era così, no? Cosa avrei potuto fare? Ero a Milano per un motivo. Era quello che avevo sognato per tutta la vita. Dio mi aveva dato l’opportunità di diventare calciatore in Europa. La vita della mia famiglia è migliorata molto grazie alla mia fatica e a tutto ciò che Lui ha fatto per me. E che anche loro hanno fato per me. Quel prezzo, in fondo, era piccolo da pagare, rispetto a tutto ciò che stava succedendo e che sarebbe ancora successo. Ne ero consapevole. Ma non per questo mi è passata la tristezza.
Andiamo su sul tetto piatto del Tota? È il mio rifugio lì. Chiamo le moto. Ci portiamo dietro un po’ di birra e ti faccio vedere la vista su tutta la comunità. Dai, muoviti!
Fammi accendere il blutù. Blutù, cavolo. Non capisci? Il coso che collega il cellulare alla cassa, caspita. Ah, non so mica come si chiamano queste cose in inglese, accidenti. Ho studiato solo fino alla seconda media, santo cielo. Qui in favela la musica va messa a tutto volume, fra. Qui funziona così, e solo così.
Quella lì è la Grota, poi c’è la Chatuba e qui siamo nel Cruzeiro. È tutto la stessa cosa in realtà. Una comunità attaccata all’altra. Però sono zone diverse del Complexo da Penha. E quella lì è la Chiesa della Penha, lassù, che protegge tutti noi. Vedi, io porto la chiesa proprio al collo, in questo medaglione. Ti piace? Mettilo pure, fai il figo. Significa che sei ufficialmente benvenuto nella nostra comunità. Che onore, eh?
Quando sono “scappato” dall'Inter e me ne sono andato dall’Italia, sono venuto a nascondermi qui. Ho girato tutto il complesso per tre giorni. Nessuno mi ha trovato. È impossibile. È la regola numero uno della favela. Zitto e mosca. Secondo te qualcuno mi avrebbe tradito? La stampa italiana era impazzita. La polizia di Rio ha perfino fatto un’operazione per “salvarmi”. Dicevano che ero stato rapito. Ma dai, scherzi? Figurati se qualcuno mi farebbe del male qui, proprio a me che sono cresciuto nella favela. Mi hanno criticato un sacco per questo.
Che ti piaccia o no, era l'indipendenza di cui avevo bisogno. Non ce la facevo più in Italia, appena uscivo di casa dovevo guardarmi attorno e controllare chi c’era, dove stavano le telecamere, chi si avvicinava, se era un giornalista, un furbo, un truffatore, o chissà quale altro rompiscatole.
Da noi queste cose non esistono. Qui, quelli di fuori non hanno idea di cosa faccio. Questo era il loro problema. Non capivano perché fossi tornato in favela. Non era per l'alcol, né per le donne, tanto meno per la droga. Era per la libertà. Era perché volevo un po’ di pace. Volevo vivere. Volevo essere di nuovo umano. Solo per un po’. Cavolo, questa è la verità. E allora?
Ho provato a fare quello che volevano loro. Ho cercato di fare accordi con Roberto Mancini. Mi sono impegnato con José Mourinho. Ho pianto sulla spalla di Moratti. Ma non riuscivo a fare quello che loro mi chiedevano. Stavo bene per qualche settimana, non bevevo manco un goccio, mi spaccavo di allenamenti, ma poi c’era sempre una ricaduta. E tutti mi criticavano. Non ce la facevo più.
La gente ne ha dette di tutti i colori, come se fosse chissà quale scandalo. “Ma come? Adriano ha smesso di guadagnare sette milioni di euro? Ha mollato tutto per questa roba?” È quello che ho sentito dire più spesso. Ma nessuno capisce perché l'ho fatto. Perché non stavo bene. Avevo bisogno del mio spazio, di fare quello che volevo fare.
Guarda ora. C’è qualcosa di strano nel nostro giro? No. Scusa se deludo qualcuno, ma l'unica cosa che cerco qui a Vila Cruzeiro è la tranquillità. Qui posso andare in giro scalzo e senza maglietta, solo con i pantaloncini. Gioco a domino, mi siedo sul marciapiede, ricordo le storie della mia infanzia, ascolto musica, ballo con i miei amici, dormo per terra. Vedo mio padre in ognuno di questi vicoli.
Che altro mi serve?
Non porto nemmeno una donna qui. E tanto meno mi metto con le ragazze del posto. Voglio solo stare tranquillo e ricordare chi sono davvero.
Nient'altro.
Faccio quello che voglio.
Vuoi venire? Vieni pure.
È per questo che ci torno sempre.
Qui sono rispettato sul serio.
Qui c’è la mia storia.
Qui ho imparato il significato della parola comunità.
La Vila Cruzeiro non è il miglior posto al mondo.
La Vila Cruzeiro è il mio posto.