Il Gioco Prima Della Finale
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Questo rombo enorme e costante che cade sul campo in una finale di Champion League è qualcosa di difficile da dimenticare. Un suono pesante, indecifrabile, una massa compatta di rumore che sospende il tempo e mi colma l’anima.
Gerrard e Kuyt sono pronti al calcio iniziale. E finché uno di essi non tocchi il pallone per rimettere in moto il mondo, le cose sembreran messe così. Così è una finale di Champions.
Dai arbitro, via col fischietto!
Guardo dietro di me e vedo Dida, Oddo, Nesta, Maldini e Jankulovski.
“Questa difesa è fortissima.”
L’hanno detto due anni fa quando decidemmo contro questo stesso Liverpool, ad Istambul, e facemmo tre a zero nel primo tempo.
“Questa difesa è fortissima.”
Prendemmo tre gol in meno di dieci minuti e perdemmo il titolo ai calci di rigore. Questa imprevedibilità è ciò che fa il calcio talmente appassionante. Mi fido del tutto di questi tipi, rieccoci qui di nuovo.
Come fu possibile?
La logica non lo spiega, ma ho imparato che non controllo il risultato del gioco. Però attraverso la preparazione aumento la mia probabilità di vincere.
Do un’altra occhiata. Davanti alla nostra difesa ci sono Ambrosini, Gattuso, Pirlo e Seedorf. Al di là del talento, abbiamo un ambiente di campioni, un’atmosfera che richiede sempre aumentare il livello della qualità. In testa mia, cerco di immaginare il modo in cui si svolgerà la partita, i movimenti offensivi e difensivi che mi toccheranno, le zone che attaccherò, come giocherà l’avversario, e al tempo stesso taccio le molteplici voci e libero il mio istinto, calmo e sereno per fare quanto non ho immaginato: fu così fino a adesso. I movimenti tattici automatici mi mettono al posto giusto del campo, devo eccellere nella mia parte, sbagliare il meno possibile, nei giochi decisivi i dettagli scrivono la conclusione della storia, ma il timore di sbagliare non può bloccare la mia creatività. Gli vado addosso. Mi son sempre piaciute le grandi partite.
Incredibile la giornata che abbiam vissuto fin qua, rieccoci qua un’altra volta. E se… un’altra volta non si vince?
Ma so che fra poco l’angoscia resterà solo ai tifosi, è sempre così. Sento i tifosi che ci appoggiano come mai, sono infiammati, ci han contagiato durante tutta la stagione, si fidano di noi, ma la finale è un dramma col ricordo del duemilacinque. A Milano un solo grido: “Alè, Milan alè, forza lotta vincerai, non ti lasceremo mai!”
Da parte mia, appena Gerrard tocca il pallone, tutto si alleggerirà. Il mio desiderio di essere campione mi porterà ai giorni di sole dove spendevo tutto l’intervallo al collegio a dar calci ad un pallone di fortuna, e allora mi calmerò. Tutto sarà più nitido, i sentimenti di paura e entusiasmo meno mischiati, il rombo si farà distante, la voce dell’amore al calcio si rifletterà nei miei movimenti e giocherò felice e libero come ai miei tempi di ragazzo.
Fu a scuola a São Paulo che tutto cominciò, credo. Prima, quando abitammo a Brasilia ed a Cuiabá, la mia famiglia non era molto vicina al calcio. Magari mi piaceva vedere il Tricolor in tivù, ma eravamo piuttosto inclinati alla pesca. Mio padre organizzava viaggi per pescare nel Pantanal con gli amici e mi portava con sé. Come mi piaceva… Poi traslocammo a São Paulo e nel collegio, per qualche ragione, fui ammaliato dal calcio. Per sempre. Giocavo talmente tanto che il maestro di Educazione Fisica chiamò mia madre: “Senta, la consiglio di portare Ricardo ad una scuola di calcio, perché è diverso dagli altri bambini. Tanto nel modo di toccare il pallone quanto nella voglia di giocare”. Lei lo ascoltò.
Ma cosa aspetta quest’arbitro? Andiamo, signor mio!
Al mio fianco Inzaghi pare più elettrico che mai. Si era in dubbio se avrebbe potuto giocare. A cosa penserà? Alle semifinali contro il Manchester United? Che giochi furon quelli! In andata, a Old Trafford, Cristiano Ronaldo segnò giusto ai cinque minuti. Poi feci due reti ed un riconfortante silenzio fece tacere il rombo. Al secondo tempo Rooney segnò due volte e la vittoria fu loro. Fu un grande gioco, e nonostante il risultato nessuno al Milan si sentì sconfitto quella sera.
In ritorno, a San Siro, sotto una pioggia pesante e benedetta, facemmo quello che la stampa italiana fino ad oggi chiama “La Partita Perfetta”. Segnai per primo in una giocata dove Seedorf sfiorò con la testa il pallone all’indietro, al bordo dell’area, il pallone rimbalzò una volta e mi diede il tempo di sbirciare velocemente il loro portiere, Van der Sar, e tirare forte colla sinistra, all’angolo. San Siro venne giù. Fu meraviglioso. Poi Seedorf e Gilardino conclusero la nostra classifica verso la decisione.
Uffa, finalmente il fischietto. Comincia la finale!
Non amo molto la parola “rivincita”. La trovo pesante ed imprecisa. OK, gli avversari sono gli stessi, le maglie e gli allenatori pure. Ma ci sono giocatori diversi da entrambi i lati, adesso siamo a Atene e non a Istambul, ed io non sono lo stesso del duemilacinque. In quell’anno giocavo da “trequartista”, il vertice alto del losango di mezzo campo, con Crespo e Shevchenko in attacco. Questa volta è Inzaghi il nostro centravanti e Ancelotti mi ha chiesto di giocare più libero e vicino a lui. Il nostro schema è cambiato, è il famoso “albero di Natale”. Sta funzionando: ho già segnato dieci reti in Champions. Che benedizione!
Come vola il tempo...
Non molto tempo fa, mio padre acquistò un titolo del São Paulo e cominciammo a frequentare il club. Per me, fu calcio la mattina (a scuola), il pomeriggio e la sera (al Club). Respiravo il pallone. Partecipavo ai campionati interni e presto mi fecero allenare con le basi. Io non vedevo niente di diverso né di speciale in me. Lo dico sinceramente. Anche perchè c’erano ragazzi migliori di me. Ed io convivevo con un problema: un ritardo di due anni nel mio sviluppo osseo, il che mi faceva molto più piccolo dei ragazzi della mia età.
Per questo, dai dodici ai quattordic’anni fu un periodo di crescita emozionale per me. Mi allenavo, mi allenavo, e mai mi facevano giocare. Mi stancai di veder il gioco dalla gradinata. Era deludente, ma fu insieme un tempo di rafforzamento dove mi appoggiai alla mia famiglia e a Dio, la forza suprema, come in seguito scoprii.
Arrivavo a casa estremamente scoraggiato. “Non voglio più questo. Basta col calcio.” Un giorno mi chiamarono i miei genitori: “ D’accordo se vuoi mollare. Ma cerca di far qualcosa che ti riempa il cuore d’allegria, qualcosa che ti dia forza quando arriva lo scoraggiamento. Perché la vita è così, buoni e cattivi momenti si alternano. Il segreto è aver qualcosa che ti piaccia fare e che ti aiuti a superare i cattivi momenti”.
Mi coricai con quello in testa e svegliandomi mi resi conto che amavo una sola cosa: giocare al pallone. “Allora preparati e vai ad allenarti”. Fu per un filo. Che benedizione la mia aver padre e madre da darmi tale consiglio. Cambiò la mia vita.
Dio mio, già adesso? Tira via, tira via di lì!
Nel primo momento pericoloso del gioco, al decimo minuto, Dida fa una delle sue miracolose parate e io mi domando se tutto si ripeterà: “Ma di nuovo?”.
Ei! Adesso tocca a noi...
Ricevo il pallone, al sedicesimo minuto. Sono un po’ lontano, ma ci provo. Stoppo al petto, metto a terra e tiro. Il portiere fa la parata. Grande gioco. Di qua e di là. Le due squadre cercano il gol, i terzini si arrovellano per bloccare, è bello il gioco così.
Accidenti, rieccolo qui il pallone. Benissimo. Inzaghi è fuorigioco, torna Pippo, torna o non riesco a farti il passaggio. Vabbè, allora tiro io. Ei! Ma da dove viene tanta gente in rosso?! Sei tipi del Liverpool mi circondano, qui si esagera. Scusatemi cari, vi vengo addosso... Xabi Alonso mi butta a terra. Beh, perlomeno il fallo è dove piace a Pirlo. Negli allenamenti fa sempre rete. Sembra che ce lo metta con la mano. Dai Andrea, dai! Nell’angolo destro e... aspetta, esci, levati via! A metà strada il pallone devia su Inzaghi, il rombo cresce, copre tutto, ma stavolta porta solo allegria. A stento udiamo ciò che ci diciamo a vicenda nella commemorazione. Molto meno cosa grida Ancelotti dalla panchina. Milan uno a zero!
Intervallo.
Verso lo spogliatoio ricordo il dottore che mi aveva in cura nel momento più drammatico della mia carriera, nel duemila. Perché giusto adesso mi viene in mente? Non ne ho la minima idea. Avevo diciott’anni.
— Quando posso tornare a giocare, dottore?
— Oggi non è giorno da domandarselo. Oggi devi ringraziare, perché nella maggioranza dei casi come il tuo, il paziente neanche cammina. Oggi tu ringrazia soltanto.
Fu un colpo talmente grande che tutto il mio corpo rabbrividì. E lì ebbi la prova che Dio sempre mi sostenne, perché non c’è una spiegazione logica per quanto avvenne.
Dopo un prestito al Paulistano di São Roque, dove mi sviluppai parecchio tatticamente e mentalmente, ero tornato al under-20 del São Paulo come titolare e vivevo in attesa di una chance nei professionisti. Il mio amico Julio Baptista c’era già andato. Nell’ottobre del duemila vengo sospeso per un gioco dopo il terzo cartellino giallo. L’allenatore mi concede vacanza e ne approfitto per andare dai nonni paterni a Caldas Novas.
Chi poteva immaginarselo? In un innocente gioco al parco acquatico, scivolo dal toboagua, batto la testa sul fondo della piscina. Frattura alla sesta vertebra cervicale. Finisco l’anno fermo, col giubbotto ortopedico, e temo per il mio futuro di giocatore. Fu doloroso. Salvo del mio rapporto con Dio, di niente più avevo certezza. Arrivai a pensare che facoltà scegliere se questa dovesse essere la mia strada. Ma il ricupero fu sorprendente e a gennaio ebbi il permesso di riprendere gli allenamenti.
Se fino a quel punto la mia personale esperienza spirituale era già stata emozionante e potente come il rombo dello stadio in una finale Champions, era surreale quanto aveva ancora da venire.
Tornai agli allenamenti, ma rimasi in panchina. La nostra squadra era forte, pronta a disputare la Coppa São Paulo del duemilauno. A quel punto Vadão, l’allenatore dei professionisti, chiese dei ragazzi del under-20 per giocare al Torneio Rio – São Paulo. Fu combinato che portasse solo alcune riserve, per non indebolire il São Paulo nella Copinha. Io ci andai. Gioco dopo gioco il São Paulo va avanti nel Torneio. Ed eccoci in finale contro il Botafogo. Stiamo perdendo, uno a zero. A metà della ripresa, Vadão guarda in panchina e punta il dito verso di me. “Vieni, ragazzo!”. Nessuno mi conosceva. Un locutore mi chiamò “il ragazzo Ricardo Kakà della base”, e in tivù il mio nome apparve con la C: Cacà. A farla breve, che la finale Champions sta per ricominciare: segnai due reti, una al trentaquattresimo e l’altra al quarantaquattresimo, e il São Paulo vinse per la prima volta il Torneio. Un esordio più strabiliante delle parate di Dida.
Mesi dopo ero in Nazionale, ci credereste? E l’anno dopo il mio nome era l’ultimo dei richiamati da Felipão per i Mondiali del duemiladue. Questo solo cinque anni fa!
Mi richiamavano per alcune partite della Nazionale con soli atleti che giocavano in Brasile. Poi, al momento di riunirmi con gli “stranieri” a Barcellona, prima di seguitare per la Malasia e il Giappone, arrivo in albergo per colazione e mi vedo uscire dall’ascensore tutti quei tipi che sceglievo come idoli al videogame. Uno ad uno.
Ronaldo, Rivaldo, Cafu, Roberto Carlos... Gente, cosa ci faccio io qui?
Il primo a venirmi a parlare fu Ronaldo. Credo che gli ricordai sé stesso, il più giovane della squadra nel ’94. “Guarda, per tutto quel che hai bisogno, qualsiasi cosa, dentifricio, o solo sfogarti per la nostalgia della famiglia, passa pure in camera. Conta sempre su di me.” Era un fenomeno, non solo in campo.
Beh, esser campione del mondo ai vent’anni fu incredibile. Giocai pochi minuti contro la Costa Rica nella fase iniziale e, alla fine della decisione contro la Germania, Felipão mi chiama. Consegno la scheda al quarto arbitro, lui alza il cartello e Galvão dice: “ Avrà tempo il ragazzo Kakà di entrare?”. Non lo ebbe, ma va bene lo stesso. Quando l’arbitro chiude la partita e tutto il Brasile grida “È penta!”, io sono al bordo del campo esattamente come adesso. Ma stavolta ho ancora una intera ripresa della Champions da affrontare.
Andiamo ragazzi! Obiettivo, concentrazione...Non lasciamocela scappare questa volta.
Sinceramente, non ricordo le istruzioni di Ancelotti all’intervallo. Ma son certo che avrà detto cose buone, le dice sempre. Quando arrivai al Milan nel duemilatre, nonostante fossi campione del mondo, ero molto giovane e mi sentii curato da lui. Ancelotti è bravissimo in questo. Ascolta, spiega le decisioni, fa l’impossibile perchè tutti si sentano tranquilli e importanti per la squadra. Non è facile riuscirci in un elenco pieno di gente riconosciuta come Maldini, Cafu, Seedorf...
Una formazione con la mentalità vincitrice che, a proposito, aveva finito di vincere la Champions. Ricordo che, prima di firmare il contratto col Milan, Leonardo, con cui avevo giocato nel São Paulo e che era direttore del Club in Italia, mi disse una cosa che mi segnò al giustificare perché le trattative non avanzavano dopo i primi sondaggi.
“Il Milan ha vinto la Champions, l’idea è non toccare troppo l’elenco. Qui, siamo grati e diamo molto valore ai giocatori campioni” , mi spiegò Leo.
Bene, alla fine andai al Milan qualche mese dopo, ma mi rimase impressa la forza di quelle parole: “Il Milan ha vinto la Champions”. Lì veramente capii cosa significhi vincere una Champions League. Ed anche capii, con quel gesto di gratitudine verso i campioni, cosa fa un Club e un allenatore così speciali.
Nella mia prima stagione, in cui gli avversari quasi non mi conoscevano, ebbi libertà nel gioco e andai benissimo. Fummo campioni d’Italia e fui eletto il miglior calciatore del campionato.
Nella seconda stagione, comincio a oscillare. Non ero più una novità. Mi conoscevano, sapevano di cosa ero capace, i difensori mi bloccavano, ed io ero in difficoltà per trovare gli spazi di gioco. Gli ausiliari di Ancelotti entrarono in azione. Fummo tutti al Milan Lab, il reparto del Club che si occupa della salute fisica e mentale dei giocatori e della loro performance in campo. Insieme vedemmo un sacco di video con le mie giocate, osservando le mie scelte, i colpi sbagliati e quelli giusti.
Fin da bambino la mia caratteristica era prendere il pallone e partire a tutta velocità. Diretto, obiettivo e forse piuttosto prevedibile, sarei scattato col pallone. Ma lì al Milan Lab, mi disse Ancelotti con quella sua tipica serenità: “È l’ora che tu impari a giocare senza pallone. A muoverti per creare spazi attorno a te stesso o per i tuoi compagni. Questo migliorerà la tua performance”.
Tornando in campo per la ripresa, penso che mi sono sviluppato parecchio dopo quel discorso. Altri quarantacinque minuti. Sta a me il primo tocco al pallone. Il rombo torna, monumentale, e oltre il campo inghiotte il mondo. Si sente a Atene, a Milano, a Brasilia, in Inghilterra, a São Paulo, addirittura in quella barchetta di pescatori al Pantanal.
Ai ai, neanche due minuti di gioco, e già Nesta è costretto a una scivolata in area per salvarci da un attacco di Gerrard. È forte questo tipo, eh?
Dai, buttiamoci addosso pure noi! Faccio uno scatto dalla sinistra e di nuovo mi fan cadere giù vicino all’area. Ecco Pirlo. Uhhhhh! Sopra la traversa.
Manco il tempo di digerire la giocata, e in seguito, dopo un maldestro passaggio di Gattuso, Gerrard entra da solo in area. Addio! Il Liverpool non pareggia solo perché Dida, colla sua monumentale statura, si butta a terra e fa la parata. Grande Dida!
Altri dieci minuti e l’avversario predomina: due tiri che sfiorano il palo. Ma manca poco alla fine. La stanchezza si abbatte su tutti. Col poco ossigeno rimanente, il mio cervello ricorda la conversazione-chiave con Ancelotti al Milan Lab e mi muovo verso uno spazio vuoto a mezzo campo.
Dai, vieni, dai...
Ambrosini mi fa un passaggio e io vado avanti. Alzo la testa, vedo Inzaghi che scatta alla schiena dei difensori. Fingo di prepararmi al tiro, invece gli passo il pallone.
Daie, Pippo, vai!
Lui fa il tiro sotto il portiere. Un tiro talmente sottile che la palla mi sembra ci metta tutti i miei venticinque anni di vita a oltrepassare la linea del gol.
GOOOL!!!
Mancano due minuti più quelli di ricupero, ed io sono molto vicino a esser campione di una Champions League. Quando Kuyt segna per il Liverpool, mi domando se ce la lasciamo sfuggire un’altra volta. Ma oggi non è un giorno da farsi domande. Son cinque minuti finali in cui nessun pensiero logico viene in testa. È solo lotta. Correre come si può. Solo correre e tirare il pallone il più lontano possibile dalla nostra area. L’arbitro, che ci ha messo tanto a cominciare il gioco, sembra ancor più lento a finirlo.
Eh finiscila, arbitro!
Ohh! Adesso si! Un nuovo spettacolare rombo attraversa la notte all’Olimpico di Atene: fischio di chiusura. Milan campione della Champions League del duemilasette. Chiudo il torneo come capocannoniere e, ancora non lo sapevo, riceverò il Pallone d”Oro e il Premio FIFA di miglior giocatore del mondo dell’anno.
Inginocchiato a centro campo, mi sento realizzato. Un forte sentimento di gratitudine mi pervade e crollo. Siamo tutti i Kakàs lì.
Il ragazzino del collegio che tirava calci a un sock ball. Quello che amava pescare. Quello che ascoltò il più prezioso consiglio dei genitori quando tutto pareva impossibile e pensava di rinunciare. Il giovane che ruppe la sesta vertebra cervicale sul fondo della piscina. Il Ricardo Cacà della base che lasciò la panchina per fare i due gol di un titolo inedito per il São Paulo. Il principiante che fu “addottato” da nientemeno che Ronaldo Fenomeno nella Nazionale del pentacampionato.
Mi inginocchio perché non sopporto il peso di tale emozione. Lentamente tolgo la maglia del Milan, perchè vorrei mostrare a tutti la mia gratitudine. L’ho stampata in petto, sulla maglietta che uso sotto: I BELONG TO JESUS.
Appartengo a Gesú.
So che questo non è il giorno di far domande, ma non riesco a evitare. Come non credere che Egli ha preparato tutto? Come non credere che la mia storia è un miracolo e Lui ha sempre avuto un proposito per me? Come mai allontanarmi dalla Sua presenza? Solanto Lui mi completa interamente. E, nel futuro, se mi domanderanno cos’è disputare una finale di Champions, cosa dirò?
Dirò che giocare una finale di Champions è questo: un ruggito. La vita che ruggisce. Un suono che modella il nostro carattere nella vittoria o nella sconfitta.
E appena il pallone rotola, non è più un gioco immaginario nella nostra mente e si trasforma in un richiamo, alto e imperativo, per andare in cerca di quel che ci appartiene.