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La Georgia vincerà gli Europei, ovviamente

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Ok, ora vi dico una cosa che dovete provare a fare. 

Chiedete a un georgiano chi vincerà gli Europei.

A qualsiasi georgiano: un bambino, una signora anziana, un negoziante. Non importa chi.

Chiedeteglielo. Sapete cosa succederà?

Beh, innanzitutto, prima che rispondano....vi guarderanno negli occhi. Come se foste matti a fare una domanda del genere.

Chi vincerà?

“La Georgia vincerà gli Europei. Ovviamente. Ovviamente”.

Vi fisseranno. Solo per aver fatto la domanda. Sei stupido? O cosa? Che domanda è?

“Chi altri volete che vinca l’Europeo, se non la Georgia?!?!?!”

Sei matto. Sei davvero un pazzo.

Qualcuno obietterà: “Ma non è la prima volta nella storia in cui siete agli Europei?”

Non importa! Fa lo stesso!

“Vincerà la Georgia”, risponderà l’anziana signora.

I georgiani sono così, in tutti gli ambiti.

Vano Shlamov/AFP via Getty

Sai chi ha il cibo migliore?

Spagna? Italia? Giappone? Hahahahahahah.

La Georgia!!!!!

La musica migliore?

La Georgia!!!!

Davvero, non so cosa sia. Forse è un dono di Dio. È come se fossimo nati così: la Georgia ha il meglio, in qualsiasi campo. 

E lo dico anche io. 

Quindi per me...chiaramente i khinkali georgiani sono il cibo migliore che tu possa mai assaggiare. E ovviamente noi possiamo vincere Euro2024. Naturalmente. Chi è che dice il contrario?!?!

Essere qui è fantastico. Io non sono vecchio, ho solo 23 anni. Ma ci sono già stati tanti alti e bassi, nella vita così come nel calcio. Una grande cavalcata nel parco, una corsa mozzafiato....si va molto veloce....mette anche paura, ma è divertente...

Un ottovolante. Le montagne russe, ecco. La mia vita è così. 

E ora ve la racconterò.



Quando ero piccolo, in estate, quando la scuola era finita, andavo ogni giorno con gli amici a giocare a calcio per strada. C’erano bambini dappertutto. Facevamo piccoli tornei. C’erano quattro edifici e al centro di queste costruzioni c’era il nostro “stadio”. Ma per terra c’era l’asfalto. Più avanti, siamo riusciti a giocare sull’erba. All’inizio però c’era solo il cemento, quello duro. E quando vai per terra, le ginocchia si sbucciano e diventano rosse. C’erano parecchie ginocchia insanguinate. 

E sapete qual era il bello? Che le persone ci guardavano, da quegli edifici. Come se fossero dei tifosi sugli spalti.

In Georgia, la gente ama lo sport. In primis il calcio. Sempre, davanti a tutto. Qualsiasi partita di calcio, loro la guardano. Che siano partite amichevoli o partitelle tra ragazzini per strada. Non importa. Se giochi a calcio, avrai un pubblico. 

Antonio Balasco/Kontrolab via Getty

A volte giocavamo anche di notte, a orari in cui i bambini dovrebbero essere a letto. Cominciavamo a urlare e a discutere della partita e i bambini, quelli più piccoli, si svegliavano. E i genitori, chiaramente, si arrabbiavano parecchio. A quel punto le nostre partite in notturna erano terminate: troppo rumore, niente più “Champions League”.

Io non ero uno di quelli che urlava tanto. Il più delle volte ero tranquillo. Non ero quello che cominciava le risse. A volte le persone dicevano di me: “Penso che questo ragazzo sia timido” (qualcosa che sento dire tuttora dalla gente, nei miei confronti). Ma io non sono timido. Semplicemente, io rispetto chiunque. 

Però. Però!!!

Se tu tocchi i miei amici, o gli dai fastidio, io divento feroce. La mentalità è questa, capite? Non inizio mai io la battaglia. Però posso concluderla. Specialmente se un mio amico è nei guai, io devo aiutarlo.  

Mia mamma odiava questa cosa. “Ma perché fai a botte? Stai calmo”. 

Però, dal posto in cui vengo io, non lasci mai solo un amico in difficoltà.



Quando sono entrato nelle giovanili della Dinamo Tbilisi è stato molto più calcio e meno botte. Perché sapevo che sarei potuto diventare un buon calciatore, seguendo i loro insegnamenti: se guardate la nostra nazionale, la maggior parte dei giocatori arriva da quel vivaio.

Però è stato difficile. Come quando sono arrivato in prima squadra e i giocatori più anziani mi guardavano con quell’aria, del tipo: “Oh, ora questoragazzino gioca con noi?”

In quegli anni ero ancora giovane e nessuno mi conosceva.

“Chi è questo ragazzino?”. Avevo 15 anni, mi pare. C’erano giocatori adulti e dicevano: “Oh, adesso abbiamo questo ragazzino. Probabilmente allora perderemo”. Loro parlavano, io li ho sentiti mentre loro non credevano che li sentissi. “Oh, no, non lui”, dicevano.

E io mi sentivo un po’ così....volevo piangere. Forse sono scarso, pensavo. Stavo male, dentro di me. E a quel punto mi sono detto: Fanculo, ora devo dimostrargli che posso essere un buon giocatore. 

A quel punto la mia mentalità si è fatta forte. Motivazione pura. E mi ha reso migliore. 

Poi sono andato in Russia. A Mosca. Avevo 17 anni, quasi 18. Ero ancora molto giovane. E vivevo da solo. I miei genitori erano inquieti. Mio padre era molto preoccupato ed è stata dura anche per me: sentivo lo stress e il peso di essermi allontanato dalla mia famiglia. 

Pavel Lisitsyn/Sputnik via AP

Ma quando ho iniziato gli allenamenti, mi sono detto: Per quale motivo sono venuto qui? Sulla maglia c’è scritto il nome della mia famiglia, quindi è come se avessi portato la mia famiglia con me. Devo lavorare al massimo per loro, non solo per me. Non posso deluderli: devo renderli orgogliosi. 

E allora mi sono detto: Dacci dentro. 

C’era un altro georgiano lì, Saba Kvirkvelia, e lui mi ha aiutato molto. Mi ha aiutato nel rapporto con gli altri giocatori, mi ha portato a pranzo o a cena con lui qualche volta, in qualche occasione mi ha difeso. E quando ho cominciato a mettere piede in campo e a giocare, l’allenatore mi apprezzava davvero tanto. Lo rispetto tanto, perché lì sono cresciuto molto: fisicamente, mentalmente e anche sul piano della personalità.

Però ero da solo. Abitavo al centro tecnico, non avevo amici. Praticamente eravamo solo io e i ragazzi della sicurezza del centro: gli altri giocatori vivevano tutti da qualche altra parte. Lì ero solo. Andavo a mangiare da solo. Era anche un posto un po’ spaventoso. Davvero, non sto scherzando! Era in mezzo a un bosco e non potevi andare fuori a fare una passeggiata perché potevi ritrovarti addosso dei cani o altri animali aggressivi. Passavo ogni momento dentro al centro tecnico. Non andavo in centro a Mosca. Anzi, non andavo proprio da nessuna parte.

Di notte non c’erano luci al centro tecnico: quando andavo ad allenarmi a volte era notte, ma io avevo ancora voglia di lavorare. Un po’ di lavoro supplementare individuale. Ma non c’era luce. E ogni tanto arrivava l’addetto alla sicurezza: era spaventato, completamente al buio. 

“Hey, ma chi sta correndo sul prato?”.

Sono io. 

Dribblando in mezzo alle tenebre.

Questo addetto era davvero una persona gentile. Ogni volta mi diceva: “Ora basta, ok? Adesso ti fermi”. Ma non c’era altro da fare. Non potevo fare nulla. Pensavo solo al calcio e così lavoravo di notte. Ogni notte. 

Craig Williamson/SNS Group via Getty

Nella mia mente mi dicevo: Non posso tornare in Georgia perché mi rivelo scarso. Devo giocare bene. Devo lavorare duramente, perché la mia famiglia e il mio Paese mi stanno guardando. 

Ho portato sempre la Georgia con me. Tutta la mia gente. Perché quando ami il tuo Paese, ragioni così. Faccio tutto per il mio Paese, per i bambini che mi adorano. (O anche se non mi adorano, ma sono georgiani: lo faccio anche per loro)

Voglio renderli orgogliosi, sempre.

Nel 2022 però è iniziata la guerra in Ucraina. La guerra fa schifo. Viviamo tutti nello stesso mondo, per me nessuno dovrebbe uccidere qualcun’altro. È semplice, il mondo dovrebbe vivere in pace. Quindi, quando è cominciata la guerra, mi sono detto “Non posso stare qui”. Per la mia nazione, per la nostra storia. Così ho detto al club che dovevo andarmene. 

Mi sono trasferito alla Dinamo Batumi, nella migliore nazione del mondo. Dai, che ormai sapete qual è!!

Tornare a casa è stato bellissimo, molto emozionante. Stadi con tutti che ti guardano. Proprio come accadeva a quei bambini sull’asfalto in mezzo agli edifici. 

Ma senza le ginocchia sbucciate che sanguinano. 



Venire a Napoli è stato tutto merito di Badri. Sta parlando di mio padre. 

Il suo idolo era Maradona.

E mio padre....è stato un buon giocatore, anche lui. Ha giocato in Azerbaijan. Quando ero un bambino, guardavo sempre i suoi video e per me era il miglior calciatore del mondo.

Se qualcuno mi parlava di Messi o di Ronaldo, io rispondevo: “No, no, no...mio padre è più forte”. 

Avevamo sette, otto anni. E discutevamo: “Oh, Ronaldinho è il migliore di tutti”.

E io dicevo: “No, no, no. Non hai visto mio padre”.

Ahahahah.

“Mio padre è meglio. Vi farò vedere i video”.

Se lo cerchi su Youtube non ci sono molti suoi highlights, però io ho un Dvd. Mia mamma me lo mostrava sempre: papà tirava punizioni micidiali. Restavo così impressionato che dicevo sempre ai miei amici di venire a casa mia e guardare il video.

Ovviamente, con gli anni che passano, ho cominciato a pensare che Ronaldinho è...sì dai....forse è meglio. 

Solamente un po’.

Quando ero bambino, mio padre parlava sempre di Maradona come se fosse un Dio. 

Perciò quando il mio agente mi ha detto dell’interesse del Napoli, non stavo nella pelle dalla gioia. Ero così felice. Ma mio padre? Incredibile. 

Mio padre urlò: “Non puoi dire di no al Napoli. Non puoi dire di no al club di Maradona!”

Quindi non abbiamo dovuto pensare gran che. Non c’era niente da discutere.

“Devi andare”. 

Non posso nemmeno descrivere le sensazioni. Ho detto: “Andiamo. Subito. Devo andare lì”. 

Roberto Salomone for The Players' Tribune

Quando  sono arrivato a Napoli, la prima cosa che mi hanno detto i miei compagni è stata: “Devi cantare”.

A cena. È una tradizione. Devi cantare una canzone. Lo fanno tutti i nuovi arrivati, come una sorta di iniziazione. Ok, non c’è problema. 

Ma prima di me toccò a Kim Min-Jae e fece...come si chiamava pure?

“Gangnam Style”.

Fu bravissimo. Davvero straordinario. Ora sentivo la pressione su di me. 

Perciò ho semplicemente scelto una canzone. 

Anni prima, quando ero al Rubin Kazan in Russia, uno dei nuovi arrivati cantò questa canzone alla sua prima cena. Era bella, mi piaceva. Non conoscevo quella canzone, ma mi sono detto: “Magari, la prossima volta che cambierò squadra, canterò questa”. 

Faceva così, “Lalà, la, la, la....”

A Napoli, la prima sera, ho cantato quella. I miei compagni la sentono e mi dicono: “Ah, sei un ragazzo intelligente. Ci tieni proprio a fare subito una bella impressione ai tifosi del Napoli, eh?”

Io non capivo.

Poi, dopo la cena, Mario Rui mi si è avvicinato e mi ha detto: “Il titolo di questa canzone è Live is Life”. 

Mi ha spiegato: “Questa canzone è diventata un simbolo grazie a Maradona, l’ha resa famosa lui. Durante un riscaldamento, cominciò a giocare e a fare numeri con il pallone sulle note di questa canzone”. 

Ma giuro che non lo sapevo. Allora i tifosi hanno particolarmente apprezzato che la stessi cantando, ma sono stato solo fortunato. 

Ricordo i miei primi giorni a Napoli: dovunque guardassi, vedevo Maradona. Maradona, Maradona, Maradona. Maradona a Napoli è Dio. L’ho detto subito a mio padre. 

E lui mi ha risposto: “Portami lì prima che puoi!”

Stavo andando in taxi al campo di allenamento, perchè era il primo giorno e non avevo ancora una macchina. Poi, quando ho visto come guidano là, mi sono detto: “Non posso guidare qui. Non posso farcela, è impossibile”. 

Poi però sono arrivato in hotel...e il paesaggio...oh mio Dio. Era la cosa più bella che avessi mai visto in vita mia, davvero. 

Dopo sono andato a fare una passeggiata in giro per la città e anche le persone anziane mi conoscevano già. Ancora prima che mettessi piede in campo. Le persone mi fermavano, “ma tu sei Kvaratskhelia!”

Rispondevo: “Sì, sono io!”.

Sono un ragazzo giovane, arrivo dalla Dinamo Batumi. E ho un nome abbastanza complicato. Eppure le nonne, i nonni, tutti mi conoscevano già. 

Jonathan Moscrop/Getty

Ho detto tante volte ai miei amici che i georgiani e i napoletani sono quasi identici. Nel modo in cui entrambi amano così tanto il calcio. Abbiamo un modo di vivere la vita un po’...pazzerello? Non so come dirlo, provo a spiegarlo...La passione, la carica, l’energia. Anche in Georgia viviamo così. 

Ai miei amici georgiani dico sempre: “Dovete venire a mangiare la pizza e la pasta a Napoli”. 

L’altra cosa che dico sempre?

“Dovete venire a vedere una partita allo Stadio Maradona”. 



Non scorderò mai la mia prima volta al Maradona. Sono entrato e già nello spogliatoio era tutto così speciale. Di solito, prima della partita non sono uno che va a fare ricognizione sul campo. Qualche giocatore lo fa, sente l’erba e cose di questo genere, o ascolta un po’ di musica in mezzo alla gente. Io non lo faccio mai. Ma al Maradona, la mia prima volta, ho pensato: Forse dovrei uscire. Devo vedere com’è.  

Allora sono uscito ed era stupendo. Anche durante il riscaldamento, lo stadio era già pieno. Non si possono descrivere quelle sensazioni. Fanno andare proprio quella canzone: “Lalà, la, la, la”, quando comincia il riscaldamento. E poi mandano l’altra canzone di Maradona che arriva subito dopo...fa così, “Olè, olè, olè, olè” e allora i tifosi del Napoli cantano “Diego, Diegoooo”. 

Quindi, ogni volta che mi scaldo al Maradona, canto anche io: “Diego, Diegooo”.

Mio padre lo adora.

I tifosi del Napoli sono davvero speciali. Nell’anno in cui abbiamo vinto lo scudetto, dopo la partita in trasferta contro la Juventus siamo rientrati all’aeroporto di Napoli e stavamo cercando di tornare a casa con il pullman della squadra, ma i tifosi hanno tirato fuori questi...non so cosa siano...fuochi artificiali, ma tutti colorati. In Italia credo li chiamino fumogeni, bengala. E a quel punto non vedevamo più niente. Anche dentro al pullman, facevamo fatica a respirare. Abbiamo detto all’autista: “Hey, accendi l’aria condizionata”. 

Ma anche con l’aria condizionata, respiravamo a malapena. Era tutto blu e bianco. E fumo, tanto fumo. 

Però le persone erano così felici. Una città intera, in festa. Tutti, davvero tutti...

E ovviamente anche io. 

Sono davvero molto, molto felice di giocare per il club di Maradona. 

Quando ero un bambino in Georgia la mia vita era un po’ complicata. A volte c’era qualche problema. Non entrerò nei dettagli, ma non era sempre tutto facile, mi capisci? E ora invece sono felice perché so che faccio sorridere il mio popolo giocando per il Napoli. Tutte le persone ci guardano. E ci seguono con passione. 

Qualche volta, quando torno in Georgia e vedo i bambini che giocano con il mio nome sulla maglia, non ci credo ancora. Mi viene da pensare che quel Kvaratskhelia sulla maglia sia qualche altro ragazzo. 

Non ho mai sognato che accadesse, perché era lontano dal mio modo di pensare. Ma ora che li vedo, mi danno forza e ispirazione. 

E ora gli Europei, per la prima volta nella storia. Possiamo rendere felice tutta la Georgia. 

Per i georgiani, questo è un sogno.

Giorgi Arjevaidze/AFP via Getty

È vero che la Georgia è la migliore. In qualsiasi ambito. Ma penso che nessuno, dentro di sé, credesse che ci saremmo potuti qualificare agli Europei. Non mi riferisco a cosa dicono, ma a cosa pensano

Per questo, nella finale playoff per la qualificazione contro la Grecia è stato un po’ stressante: pensavo ogni giorno a quella partita, in ogni momento.

Pensavo: Dobbiamo farcela. Devo farcela per i miei amici. Per i miei compagni di squadra. Per il mio popolo. 

Stress. Pressione che si sentiva, sicuramente. 

Tutti abbiamo dato il 100%. Siamo andati ai rigori. Per come la vedo io, i rigori sono sempre 50-50. Nessuno sa come può andare.

Quando inizia la serie dei rigori e Mamardashvili para il primo, andiamo sopra di un gol. Ero talmente nervoso...Non potevo stare lì come se fosse tutto normale. Ero troppo stressato. Allora mi sono allontanato da tutti, così nessuno mi avrebbe guardato.

Da solo. 

Tremavo. Ovviamente, noi abbiamo il portiere migliore di tutti. Ma ero comunque nervoso. Mi sono detto: Oddio, dai ragazzi, andiamo. E quando sul dischetto per l’ultimo rigore è andato Kvekveskiri, gli ho urlato: Nika, devi chiuderla tu. 

Quando ha segnato, mi sono solo sdraiato a terra e mi sono detto, “Fanculo, ce l’abbiamo fatta!”

Tutti erano così felici. 

Quando ho incontrato mia moglie dopo la partita, mi ha detto: “Oh, wow. Sei ubriaco? Avevate alcune birre in spogliatoio?”

Io ho risposto: “No...sono solo tanto felice, è tutto qui”.

Penso che sia stato uno dei giorni più belli della mia vita. 

Una marea di persone erano ovunque intorno a me, urlando e ballando. Non potevamo nemmeno rientrare in albergo con il pullman, nemmeno la polizia poteva farci nulla. Non abbiamo neanche fatto la doccia, ci siamo solo cambiati la maglietta e siamo andati alla cerimonia con i tifosi. Tutti cantavano e piangevano: lacrime di felicità.

Non dimentichi mai più giornate del genere.

Levan Verdzeuli/UEFA via Getty

Abbiamo fatto la storia per la Georgia. 

E ora...sì, ovviamente, abbiamo una possibilità. Perché no?!?!? Chi è che dice di no?

Giocheremo contro la Turchia. Poi la Repubblica Ceca. E il Portogallo. Sarà difficile? Ovviamente. Sarà dura? Sì. Chiederò a Cristiano Ronaldo di scambiarsi la maglia con me dopo la partita? Forse. Probabilmente. Ok, sì. Perché no? È il mio idolo. E glielo dirò di persona. Ma questo non significa che non possiamo batterli. 

Perché il calcio è il calcio. Nessuno può sapere cosa accadrà. Nessuno pensava che ci saremmo qualificati. 

Anche adesso, non credono ancora in noi. Dicono che la Georgia non abbia una chance.

Tutti dicono questo.

Ma sapete cosa rispondo io?

Io dico che...

Non lo hanno chiesto sicuramente a nessun georgiano.

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